Crisi socio-economica come congiunzione fra sindemia e conflitto

Quantificare la crisi che si sta approssimando è molto difficile ma, a più di due mesi dall’avvio dell’assalto russo all’Ucraina, si può tentare di ragionare su quanto la guerra peserà sull’economia dell’Unione. Appare abbastanza chiaro che a pagare il conto di questo conflitto tra opposte fazioni dello stesso sistema predatorio sarà l’Eurozona, mentre Usa e Asia dovrebbero cavarsela senza troppi danni. La guerra in Ucraina si inserisce in un momento molto delicato dell’economia UE già sfiancata dalla sindemia: l’ aumento dell’inflazione, la maggiore fluttuazione dei prezzi dell’energia e soprattutto lo shortage dei prodotti alimentari di base e una volatilità assai accentuata dei mercati finanziari avranno serissime ripercussioni in un sistema basato su precarietà e debito al consumo.

Quanto all’Italia, secondo l’ISTAT questo conflitto ci costerà lo 0,7% del Pil nel 2022 e, considerando lo scostamento di bilancio per i finanziamenti bellici, diciamo che a farne le spese sarà quella parte di spesa pubblica più utile alle fasce deboli di popolazione. In una nota mensile i tecnici dell’ISTAT esprimono una chiara perplessità sull’andamento generale dell’economia italiana fin dal febbraio scorso “La stima dell’impatto della crisi sull’economia italiana è estremamente difficile. L’evoluzione del conflitto e gli effetti delle sanzioni finanziarie ed economiche decise dai Paesi occidentali sono caratterizzati da elevata incertezza. Al momento, è possibile valutare l’impatto dello shock sui prezzi dei beni energetici rispetto a uno scenario base. Utilizzando il modello macroeconomico dell’Istat MeMo-It, il confronto evidenzia un effetto al ribasso sul livello del Pil nel 2022 di 0,7 punti percentuali”.[1]

Ovviamente siamo tutti preoccupati del caro energia ma è utile ricordare che la cosa non riguarda le sole bollette isolatamente considerate. L’aumento incontrollato delle tariffe energetiche agisce da moltiplicatore: è un po’ come opera l’IVA, che arriva sempre e solo al compratore finale in quanto è quello che deve pagare l’aumento di prezzi e costi su tutta la filiera produttiva. Questo contribuisce in maniera decisiva alle perturbazioni inflattive aumentando ad ogni passo della catena del valore il costo unitario del prodotto. A ciò va aggiunta la carenza di materie prime e semilavorati indotto sia dal conflitto in atto, sia dal lockdown cinese che sta di fatto interrompendo i flussi di merci da uno degli hub produttivi più rilevanti del globo. Da un lato l’energia, dall’altro una diminuzione dell’offerta di determinati prodotti, creano la tempesta perfetta per una grandiosa spirale inflattiva.

È solo però uscendo dalla severità dei numeri e tornando nella vita reale che si può comprendere cosa l’inflazione significherà per la società europea in generale e italiana in particolare. Se questo shock economico si abbattesse su un sistema abbastanza stabile e flessibile i danni sarebbero lievi e facilmente risanabili: purtroppo questa crisi si sta abbattendo su un sistema socio-economico molto labile e fragile. Non solo l’emergenza COVID ha sfiancato il sistema, oltre a ciò ha messo in evidenza tutte le falle e le criticità dello stesso, dove vent’anni di ricette ultraliberiste hanno ridotto la società ad una massa di precari, costretti ad elemosinare un posto mal remunerato e a dipendere sistematicamente dall’indebitamento pubblico, in quanto sono saltate tutte le garanzie che consentivano una relativa tranquillità economica (leggasi capacità di spesa).

Il mantra popolare suona sempre uguale da nord a sud: siamo allo stremo! Una parte sempre più consistente del corpo sociale vive alla giornata e sono più di cinque milioni le persone che vivono in stato di povertà: siamo al 7.7% della popolazione e questo numero è destinato ad aumentare. È impossibile sostenere questo shock dal momento che il sistema è stato scientemente minato per consentire la libera iniziativa e concorrenza, per adeguarci ai vari trattati capestro che il libero mercato ha imposto. Le soluzioni? Se le cerchiamo all’interno del sistema abbiamo una buona percentuale di probabilità che tali soluzioni siano solo dei palliativi. Cosa ci possiamo attendere? Sussidi? L’estensione del reddito di cittadinanza? Qualche assegno familiare? Un po’ di incentivi per la spesa? Di fronte però ad una situazione di crisi strutturale nella quale l’innalzamento generalizzato dei prezzi e dei principali fattori di spesa, energia e cibo, devono essere messi a sistema con la contrazione dei redditi dovuta a licenziamenti, cassa integrazione, precarizzazione generalizzata e blocco dei contratti, ci si ritrova con una società che negli ultimi cinque lustri ha visto diminuire enormemente la sua capacità di generare domanda.

Se a questo aggiungiamo la fine del blocco degli sfratti, non associata ad un adeguamento della capacità di accoglienza negli alloggi di edilizia economica e popolare, abbiamo un quadro assai deprimente: milioni di persone sono a rischio di finire in mezzo ad una strada. Riproponiamo la domanda, quali sono le soluzioni? Ribadiamo che di soluzioni sul piano istituzionale ce ne sono ben poche che vadano oltre il tipico panno fresco sulla fronte del moribondo. Il comparto istituzionale opera sempre e solo in conformità ad una regola ben chiara, che è quella di non intralciare il processo di riproduzione capitalista. Fuori dal piano istituzionale? Qui lo scenario negli ultimi decenni si è fatto abbastanza fosco e nebuloso. Nella migliore delle ipotesi ci si spreme in uno forzo assistenziale autogestito che, per carità è più che legittimo e doveroso, ma non si riesce molto spesso ad andare oltre l’assistenzialismo ed innescare quel processo di mutuo appoggio, in altre parole di mutualismo conflittuale che fa di un momento di crisi un’opportunità di innestare processi di reale incompatibilità col modo di riproduzione capitalista.

Per mettere in piedi qualcosa del genere non basta la buona volontà di qualche collettivo o di singoli individui: occorre organizzazione e chiarezza di intenti. In questa situazione è oltremodo indiscutibile quanto sia necessario avere le idee chiare sulle strategie da adottare e sulle modalità per innescare un processo di mutualismo conflittuale, che non miri solo ed esclusivamente ad alleviare delle sofferenze o a fornire una alternativa più o meno temporanea ma, invece, che sia una strategia di critica dinamica al reale, che nel momento in cui aggredisce una problematica sia in grado di trovare soluzioni di incompatibilità crescente con il sistema. Sistema che va ricordato ha generato il problema e non può fornire soluzioni altre da quelle che osserviamo: divario sociale, colpevolizzazione dell’indigenza, giustificazionismo rispetto alla disoccupazione – in altre parole guerra ai poveri invece che soluzioni contro la povertà. La capacità di agire all’interno di tessuti sociali complessi come quelli urbanizzati non è un semplice atto di buona volontà o di volontariato attivo, dovrebbe nascere da una strategia precisa, di utilizzazione della fase emergenziale della crisi per disarticolare, de facto, la narrazione che accompagna il sistema di governo dei territori.

Sono quindi necessarie alcune domande strategiche per snudare il problema nelle sue pieghe più recondite, domande che si sarebbero dovute porre anche durante le fasi più critiche del lockdown. A ben guardare, invece, i processi e le accelerazioni indotte dall’emergenza COVID, hanno solo innescato mega assembramenti virtuali, capaci di partorire rivendicazioni che non hanno segnato nessun punto di rottura o nessuna tendenza alla destrutturazione del sistema, che di fatto ha generato e continuerà a generare questo tipo di catastrofi. Piattaforme di rivendicazione tutto sommato sovrapponibili anche se elaborate da aree politiche apparentemente differenti, il che la dice lunga sulle differenze sostanziali che tendono a sparire quando in gioco ci sono la contrazione della capacità di soddisfacimento dei bisogni basilari da un lato e la privazione di alcune libertà fondamentali dall’altro. La schizofrenia ha avuto il sopravvento portando a situazioni grottesche. È mancato un momento di lucidità che fosse in grado di andare oltre l’isteria della fase in sé, rendendo possibili nelle emergenze socio-economiche e socio-umanitarie dei momenti di conflittualità e non solo di pratiche da medagliere come purtroppo è successo durante la pandemia.

Ora che dall’emergenza sanitaria passiamo a quella della sicurezza, gli effetti sulla popolazione rimangono i medesimi: non nutro speranze che le reazioni saranno diverse dai sit-in alle striscionate in piazza fino alla solidarietà. Come anarchici non possiamo appiattirci né sull’azione caritatevole né tantomeno surrogare il pubblico servizio, la via altra è il mutualismo conflittuale. Qui diventa, importante il tipo di soggettività che si va formando all’interno del complesso rapporto che intercorre tra la capacità di anticipare una tendenza e la produzione di una rottura, che deve avere i connotati della rottura sistemica e strutturale. Non quindi una semplice incrinatura strategica per ottenere qualche vantaggio sul piano materiale. Un processo di completa disarticolazione del sistema, all’interno del quale forgiare non nuovi linguaggi, meta-dottrine o nuovi modi originali per incassare sconfitte dai nemici storici. La maturazione di una contro-soggettività, però, diviene tale non come risultato della linearità del processo ma come salto che produce una rottura con il nemico di classe (ma anche contro noi stessi). Qui bisogna essere chiari: senza una consapevole costruzione del piano organizzativo le immancabili occasioni di attivazione dei processi di rottura non saremo noi ad afferrarli! Questo è possibile solo se la necessaria rigidità del punto di vista di classe viene articolata e combinata con la flessibilità della tattica, per agire quello che c’è su un territorio senza però rinunciare a un suo cambiamento.

J. R.

NOTE

[1] Cfr. “Nota mensile sull’andamento dell’economia italiana – febbraio 2022” url: https://www.istat.it/it/archivio/267441

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